A partire dagli anni ‘60 l’arte moderna subì una vera e propria svolta in senso concettuale. Non più figure, formalismi e astrattismi, non più movimenti di avanguardie ideologiche, ma processi, linguaggi analitici, smaterializzanti, uso della parola al posto delle immagini (o parole come immagini), idee presentate come vere e proprie opere d’arte, fotografie utilizzate come mezzi immateriali e non come rappresentazioni della realtà.
Uno dei più radicali artisti in tal senso fu senza dubbio l’olandese Dibbets, che proprio a Spoleto dedicò una serie di lavori fotograficidel pavimento musivo del Duomo o ideò composizioni fotografiche di paesaggi marini la cui linea d’orizzonte viene inclinata progressivamente di grado in grado, creando dissociazioni tra la realtà e l’illusione, percezione e memoria. Anche Patella lavora per certi versi sul senso dello spiazzamento, del gioco, del rebus linguistico, in particolare con un’opera che gioca col rispecchiamento della frase latina che tradotta significa “affinchè tu ami il profondo”, ma che nella riflessione diventa “Ma ami tu?”.
Mochetti invece ha sempre basato il suo lavoro sul progetto mentale, sulle relazioni tra spazio e velocità, record e perfettibilità, utilizzando tra i primi la luce naturale e poi quella al laser, meccanismi realmente funzionanti, aeroplani intesi come metafore di evoluzione e non strumenti di distruzione. Garutti invece è uno dei più attenti artisti al rapporto tra pubblico e arte contemporanea e relazionale, punto di riferimento per tante generazioni di artisti più giovani grazie alla sua attività di docenza presso l’Accademia di Belle Arti di Brera: le singole opere dedicate alle linee di orizzonti immaginari sono parte di una serie composta di più pezzi in mano a diversi proprietari che, se riuniti, formerebbero un’unica linea.
(Hartford (USA), 1928 – New York, 2007)
Esponente principale dell’arte concettuale fin dalla metà degli anni Sessanta, LeWitt scrisse tra 1967 e 1969 una serie di memorabili riflessioni su una nuova visione dell’arte, quali Paragrafi sull’Arte Concettuale e Sentenze sull’Arte Concettuale. A partire dal 1970, dopo un primo soggiorno a Spoleto favorito dalla gallerista Marilena Bonomo e la sua prima mostra italiana presso l’Attico di Fabio Sargentini nel 1969, LeWitt elesse la città umbra come sua seconda patria, facendone il centro delle sue ricerche geometriche che molte relazioni hanno avuto con ascetismo, spiritualità e composizione musicale.
L’opera piramidale dipinta di bianco fa parte di una serie di sculture che l’artista iniziò a progettare e far costruire a partire dal 1986, partendo da moduli cubici ma sviluppandoli in forme, dimensioni e numerazioni progressive sempre più articolate e complesse. Per ognuna di esse, fatte eseguire da falegnami (questa in particolare, come tante altre, dalla bottega Scaramucci di Spoleto), prima in legno massello poi in medium density (pannelli di fibra di legno) laccate di bianco, si conserva il disegno di base e dei modellini in carta da cui fu ricavata la forma definitiva.
Complex Form n.90 è, se non l’ultima, una delle ultime piramidi della serie ed è entrata a far parte della collezione della Galleria d’Arte Moderna di Spoleto nel 1991 in seguito alla mostra Nuovo Ordinamento curata da Giovanni Carandente. Insieme al wall drawing del 2000 conservato al piano terra di Palazzo Collicola (Bands of Colors n. 951) è una delle testimonianza più importanti di LeWitt che appartengono al patrimonio pubblico di Spoleto.