Giovanni Carandente su Alicia Penalba, pubblicato in occasione della mostra personale Penalba, sculture presso la Galleria d’Arte Nuovo Carpine, Roma, 29 maggio-30 settembre 1969.
… Alicia Penalba è scultrice di razza. E in un paese di antica tradizione plastica come il nostro, il suo messaggio civile e particolarmente rigoroso si immette con la maggiore naturalezza. Alicia Penalba modella e scolpisce, trattiene la materia al suo stato naturale, compone e ordina ritmi nello spazio in quel modo assoluto che ha sempre identificato, nella tradizione italiana del fare scultura — da Wiligelmo a Marino — intento plastico e forma, spazio e presenza, immagine e simbolo, contenuto e linguaggio espressivo.
Alicia Penalba è argentina: virago fortissima (e dolcissima) di quelle lande avventurose latino-americane; ma tuttavia, si è sottratta fin dall’inizio della sua formazione, al greve fardello di piegature folcloriche, di colorate cadenze, di amabili e musicali istinti, imprescindibile in quell’antico mondo etnico…
Le sue sculture che a taluno hanno suggerito somiglianze vegetali e naturali son tutt'altro che piante esotiche di pietra o di bronzo. E’ vero — ce lo ha detto in modo esplicito lei stessa — che «tutte le forme esistono in natura» e che «si potrebbero prendere, per esempio, tutti i petali di una rosa e disporli in maniera da esprimere un sentimento del tutto differente da ciò che era la rosa». Ma allora quei petali non riveleranno più la rosa, ma «le parole del sentimento dell’uomo che li ha ordinati altrimenti». Alicia Penalba è scultrice astratta (se mai più questo aggettivo possa avere un valore dirimente o anche esprimere una particolare qualifica-zione dell’arte) perché «una forma diviene astratta in quanto crea un nuovo mito che nasce soltanto dalla mente umana». La forma, a lungo drammaticamente plasmata dalla Penalba, è un’individualità assoluta. Essa non intende evocare né immagini e neppure ritmi già noti. L’immagine è quel complesso di nuove cadenze musicali che Alicia Penalba crea dal nulla o forse dai suoi remoti pensieri, carichi di energia vitale e forza creatrice. Il ritmo è quello che essa ricompone in modo globale, ab imis, ed è l’alternanza incessante dei pieni e dei vuoti, dell’aggressiva verità plastica e dello spazio in cui l’aggressione si verifica.
« Quel che conta — è sempre la scultrice che parla — è l’ordine, il ritmo, come nella musica che si esprime soltanto nella sua totalità ». Se non vi fosse questo modo globale di intendere la presenza di una forma a lungo rastremata e plasmata e inarcata e tesa e vibrante, si potrebbero pure equivocare queste sagome brune e dense per euforbiacee o sassifragacee della Patagonia (dove Alicia passò per un po’ la sua infanzia). Del resto, a togliere qualsiasi dubbio nell’errore di questa interpretazione vegetale — nella quale pur caddero negli anni Cinquanta, illustri critici francesi, affascinati dall’inconsueto «grand jardin botanique de l’imaginaire » che la Penalba sembrava offrire — soccorre la stessa artista con parole irreversibili, e allo stesso tempo sorprendenti: « S'è fin troppo parlato di forme vegetali in relazione con le mie prime sculture. Quel periodo del mio lavoro, che è stato chiamato totemico, era spinto da un mio bisogno di spiritualizzare i simboli dell'erotismo, fonte di ogni creazione, lo stato più puro e più sacro della vita umana. Tutto questo contenuto del mistero della procreazione si elevava verso il cielo in forme solide e architettoniche intese a proteggere il delicato frutto deposto all’interno e a suggerire sia l’idealizzazione della carne sia la sua nascita. Quel mondo di forme non mi proveniva, dunque, né da foglie né da rami, né da un diretto riferimento alla natura. E del resto, non è l'imitazione delle forme delle creature che può produrre un’opera, ma la rimessa in ordine di quelle forme, il ritmo che l’individuo riesce a imprimervi».
… Il temperamento di Alicia Penalba è inconfondibile. Ha l’energia interiore che forse ebbero le antiche sacerdotesse. Ha lo sprint dei motori ad alto potenziale. Ha la vivacità, l'esuberanza, la carica vitale delle origini etniche della scultrice. «Non credo al gesto casuale, non credo alla scultura dell’azzardo» sono altre dichiarazioni sue. E sono come dire che ella non crede che a quel gesto che, profondo nell’intimo del creatore, sia stato totalmente assunto, meditato e portato all'estrema conseguenza. Una forma è per la Penalba definitiva soltanto quando essa sia stata delibata, e sia passata attraverso innumeri raffinamenti, accarezzata, studiata congiuntamente nel suo inarco e nel suo svettare, plasmata con una meticolosità non d’ingegno sibbene d’impianto. Quella forma, così accuratamente elaborata, nascerà poi spontanea, allora sì tale da richiamare le vetuste e monumentali vegetazioni del Nuovo Mondo, non nel rapporto visivo ma nella sua presenza effettiva d’immagine, nella sua simbologia ricostituita, nel suo ritornare ad essere invenzione che esiste in natura, ma che è prodotto dell'umano Esprit.
… Approdata dall'America latina a Parigi, quando Brancusi, Arp e Pevsner ne qualificavano l’ambiente, essa ha saputo imporsi fin dal primo momento con un'autonomia e un’indipendenza pari alla severità e al rigore della ricerca. E così ha continuato con coerenza, variando come in una musica, l’eterno, infallibile tema che si prefisse al primo nascere artista: quello della forma assoluta, entro la quale miti, simboli, significati reconditi, contenuti allusivi o reali, se pur esistono, sono trasfigurati dal senso intimo e singolare che il creatore dà alla bellezza. «A thing of Beauty is a joy for ever» disse Keats. Per Alicia Penalba, scultrice assoluta, «a thing of beauty» è pur sempre, perennemente, l’Amore, l'Amore che crea la vita.
Il testo è stato integralmente ripubblicato in “Giovanni Carandente e la scultura moderna. Scritti dal 1957 al 2008”, a cura di Antonella Pesola, Magonza Editore, 2020.